MGF : casi pratici e rilevanza ai fini dello status di rifugiato

di Avv. Valentina Copparoni

CASI PRATICI:

  • PRIMA DELLA LEGGE 7/2006

TRE CASI DI MGF ALL’ATTENZIONE DEI TRIBUNALI ITALIANI:

  1. Il primo caso: una bambina di origini nigeriane, residente a Torino. I genitori, appartenenti all’etnia Edo, la sottoponevano all’intervento di mutilazione degli organi genitali durante un soggiorno in Nigeria. Al suo rientro, il ricovero d’urgenza all’ospedale di Torino. Il Tribunale per i minorenni dispose subito l’allontanamento dei genitori che continuarono a stare accanto alla figlia su autorizzazione dello stesso Tribunale. L’indagine sul nucleo familiare portò a ricostruire il significato dell’intervento secondo la cultura di appartenenza, in base alla quale una donna non sottoposta a tale intervento viene mal considerata dalla comunità. Evidenziata la positività della relazione familiare, il Tribunale riteneva che vi fossero le condizioni per riaffidare la bambina ai genitori. La vicenda, iniziata con la denuncia per lesioni personali gravissime, si concluse con l’archiviazione: il pubblico ministero ritenne, infatti, che mancassero le condizioni per legittimare l’inizio dell’azione penale considerato che i genitori avevano inteso sottoporre la figlia a pratiche di mutilazione pienamente accettate dalle tradizioni locali del loro Paese. Mancanza di dolo.

  2. La seconda vicenda, con esito diverso, risale al 1995 quando un padre egiziano, separato dalla moglie italiana, venne processato per aver sottoposto entrambi i figli minori, maschio e femmina, ad interventi di mutilazione genitale durante un soggiorno in Egitto (asportazione del clitoride per la piccola e circoncisione per il bambino). Al padre si contestavano, oltre alle lesioni gravi volontarie, le aggravanti “di aver commesso il fatto contro i propri discendenti, di avere profittato di circostanze di luogo e di persona tali da ostacolare la privata difesa” (avendo agito in danno di persona minore che si trovava lontana dal luogo abituale di dimora) e “di avere commesso il fatto con abuso di autorità e coabitazione”. La vicenda si chiuse con un patteggiamento; i fatti vennero qualificati come lesioni gravi e l’imputato venne condannato alla pena di due anni di reclusione.

  3. La terza vicenda riguarda sempre l’ostetrica “tradizionale” protagonista degli episodi di cui alla sentenza del Tribunale di Verona ma si conclude con la sentenza del Giudice per l’Udienza Preliminare di Verona nel 2008 con cui viene dichiarata la prescrizione del reato contestato.

  • DOPO LA LEGGE 7/2006 :

SENTENZA TRIBUNALE DI VERONA 14 APRILE 2010 (n. 979/2010)

RIFORMATA DALLA CORTE DI APPELLO DI VENEZIA IL 23 NOVEMBRE 2012 (SENTENZA DEPOSITATA IL 21 FEBBRAIO 2013)

Il caso:

Fatti risalenti a fine marzo 2006. Protagonisti 3 cittadini nigeriani, appartenenti all’etnia degli Edobini: un’ostetrica in Nigeria priva di qualsiasi titolo per operare in Italia; una giovane nigeriana, madre di una bambina di due mesi all’epoca dei fatti; un giovane nigeriano, padre di una bambina di due settimane all’epoca dei fatti.

1° episodio: l’ostetrica “tradizionale”, dietro compenso di 300 euro, praticava la c.d. aruè sulla piccola di due mesi ossia un’incisione superficiale sulla faccia antero-superiore del clitoride della lunghezza di 4 mm e di profondità di circa 2 mm.

2° episodio: la medesima ostetrica “tradizionale”, dietro promessa di un pagamento di 300 euro, si reca presso l’abitazione del cittadino nigeriano con una borsa contenente gli attrezzi per eseguire la “aruè” sulla minore ma viene bloccata dalla polizia che da giorni la seguiva ed intercettava le sue telefonate.

Decisione

Per l’ostetrica “tradizionale”, ritenuto tra i reati contestati il vincolo della continuazione, condanna ad 1 anno ed 8 mesi di reclusione per i seguenti reati:

  • art. 583 bis comma 2 c.p. con l’attenuante della lesione di lieve entità riconosciuta prevalente rispetto alle aggravanti del fatto commesso su minore e fatto commesso a scopo di lucro;

  • art. 348 c.p. esercizio abusivo della professione (nello specifico sanitaria)

Per la madre della minore del primo episodio: condanna a 8 mesi di reclusione per

  • concorso nell’art. 583 bis comma 2 c.p. con l’attenuante della lesione di lieve entità ed attenuanti generiche riconosciute prevalenti all’aggravante del fatto commesso su minore

Per il padre della minore del secondo episodio: condanna 4 mesi di reclusione

  • concorso nell’art. 583 bis comma 2 c.p. (nella forma tentata) con l’attenuante della lesione di lieve entità ed attenuanti generiche riconosciute prevalenti all’aggravante del fatto commesso su minore

Due fattori rilevanti nella quantificazione – non eccessiva- della pena

  1. effettiva entità della lesione inferta

  2. attenta e scrupolosa ricostruzione delle motivazioni che hanno sorretto gli imputati (c.d. reato culturalmente orientato)

In ogni caso è stato:

ritenuto sussistente il dolo specifico richiesto dalla norma (atti compiuti “al fine di menomare le funzioni sessuali”) in quanto è emerso che “l’incisione […] abbia anche una valenza di controllo della sessualità femminile” ;

esclusa la ignorantia legis inevitabile degli imputati (—> cfr. art. 5 codice penale “Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale” —-> intervento Corte Costituzionale nel 1988 che introduce un’eccezione: ipotesi di ignoranza inevitabile)

esclusa la valenza scriminante delle motivazioni culturali

(…) non si può escludere la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato sulla base del fatto che la condotta è stata posta in essere in forza di una presunta necessità di adeguarsi alle proprie tradizioni culturali e abitudini antropologiche, perché un’interpretazione del genere finirebbe di fatto con lo svuotare il senso della norma e col rendere vane le ragioni della sua introduzione nel nostro ordinamento”

“il fatto di realizzare una condotta obbedendo ad una propria tradizione culturale, non accettabile alla luce dei valori e dei principi del nostro ordinamento, lungi da costituire una scriminante costituisce proprio la ragione della incriminazione e della punizione

  • SENTENZA DI SECONDO GRADO NEL MEDESIMO CASO:

Motivi di appello comuni proposti nell’interesse della madre della bambina del primo episodio e del padre della minore del secondo episodio (nessuna impugnazione nell’interesse dell’ostetrica “tradizionale”)

  • Assenza del dolo specifico richiesto dal secondo comma art. 583 bis c.p.

Il soggetto deve agire “al fine di menomare le funzioni sessuali” della persona offesa ossia deve praticare la lesioni degli organi genitali femminili al fine di alterare, sotto un profilo fisico, le funzioni sessuali della donna compromettendo il desiderio e la praticabilità dell’atto sessuale. Nel caso di specie è stata sostenuta l’ assenza di tale finalità e la natura dell’aruè come pratica simbolica realizzata per funzione di umanizzazione (riconoscimento di un individuo come uomo o donna all’interno della comunità degli umani); funzione identitaria (sancire il vincolo di appartenenza alla comunità degli Edo-bini) e funzione di purificazione

Atto compiuto o tentato in ogni caso è risultato inidoneo per la sua consistenza a palesare un’intenzione in tale senso

  • Sussistenza di ignorantia legis incolpevole, inevitabile degli imputati

L’ignoranza inevitabile della legge penale deve emergere dal “raffronto tra dati oggettivi, che possono aver determinato nell’agente l’ignorantia legis circa l’illiceità del suo comportamento e dati soggettivi, attinenti alle conoscenze ed alle capacità dell’agente che avrebbero potuto consentire al medesimo di non incorrere nell’error iuris”(cfr. su tale punto anche Cassazione 22 giugno 2011 in tema di intervento rituale sui genitali di un neonato maschio con conseguente grave emorragia).
Nel caso di specie vari elementi a sostegno dell’incolpevole ignoranza della legge da parte degli imputati: fatti risalenti a marzo 2006 quindi poco dopo l’entrata in vigore della legge 7/2006 ossia 2 febbraio 2006; madre della minore del primo episodio era in Italia da poco tempo, da sola, con basso livello di comprensione della lingua italiana e con scarsa integrazione nella società; il padre della minore del secondo episodio aveva forte legame con comunità di appartenenza degli Edo-bini ove la pratica dell’aruè era vista come doverosa.

Decisione: Assoluzione degli imputati perchè il fatto non costituisce reato per assenza del dolo specifico richiesto dall’imputazione contestata.

LA RILEVANZA DELLE PRATICHE DI MGF AI FINI DELLO STATUS DI RIFUGIATO

Le pratiche MGF costituiscono atti di persecuzione per motivi di appartenenza ad un determinato gruppo sociale per questo, qualora venga accertato in concreto che tali atti siano specificamente riferibili alla richiedente, costituiscono il presupposto per il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi degli artt. 2 e ss del d.lgs. 251/2007 , attuativo della Direttiva 2004/83/CE, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta. La concessione dello status di rifugiato viene assicurata in questi casi affinché la donna possa sottrarsi alla violenza di genere e al trattamento discriminatorio che conseguirebbe in caso di rifiuto a tali pratiche.

Nello specifico l’art. 2 lett. e) del d.lgs. 251/2007 sullo stato di rifugiato stabilisce che può considerarsi tale il “cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese”, mentre considera “persona ammissibile alla protezione sussidiaria” il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese” (art. 2 lett. g) e a tale fine definisce poi danni gravi:

a) la condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte;

b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine;

c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale (art. 14) .

Questa la posizione assunta da due diversi organi giudiziari (Corte di Appello di Catania e Tribunale di Cagliari) che si sono trovati a decidere in merito alla domanda di protezione internazionale di due donne nigeriane precedentemente negata dalle Commissioni Territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale.Più nello specifico, la Corte d’Appello di Catania (sentenza 27.11.2012) definisce testualmente la MGF “una forma di violenza, morale e materiale, discriminatoria di genere, legata cioè alla appartenenza al genere femminilee quindi riconducibile ai motivi di persecuzione rilevanti ai sensi del D.lgs. 251/07 per la concessione dello status di rifugiato. Ciò anche in considerazione che le MGF affondano le loro radici in forti tradizioni culturali o credenze religiose, circostanza che espone la donna che rifiuta di sottoporre sé stessa o le proprie figlie a tali pratiche al rischio di essere considerata nel proprio Paese, insieme alle proprie figlie, alla stregua di “un oppositore politico ovvero come un soggetto che si pone fuori dai modelli religiosi e dai valori sociali, e quindi essere perseguitata per tale motivo”.

Nel caso concreto, la Corte ha ritenuto di concedere lo status di rifugiato alla richiedente “perché ella possa scottarsi a questa violenza di genere e trattamento discriminatorio ed inoltre, posto che risulta avere fondato una famiglia, possa sottrarre anche la sua famiglia al rischio di dovere subire gli effetti di questa discriminazione “.

Il Tribunale di Cagliari (ordinanza del 3.4.2013) giunge alla medesima conclusione ma attraverso un percorso argomentativo un pò differente.

Constatata la indiscussa gravità di tale forma di violenza – tanto da essere considerata presupposto per il riconoscimento della protezione internazionale dalla giurisprudenza di vari Paesi oltre che dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – il Tribunale ha ritenuto possibile interpretare la norma che definisce la qualifica di rifugiato (art. 2, lett. e, D.lgs. 251/07) in senso conforme alla giurispudenza della Corte Europea in quanto “la rappresentazione della mutilazione genitale femminile quale atto di persecuzione per motivi di appartenenza ad un determinato gruppo sociale è palesemente compatibile con la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta negli articoli 2 e 3 della Costituzione, con particolare riguardo alla tutela dei diritti inviolabili dell’uomo e al principio di uguaglianza e di pari dignità sociale, senza distinzioni di sesso, alla stessa stregua dei motivi di razza, religione, nazionalità o di opinione politica.

Fissata questa cornice interpretativa, il Tribunale è passato a verificare la riferibilità degli atti di MGF alla persona della richiedente secondo i criteri delineati dal D.Lgs. 251/07 ed interpretati dalla Corte di Cassazione per concludere quindi per il riconoscimento a favore della ricorrente dello status di rifugiato.

La due pronunce in esame, sicuramente molto positive per accordare la massima tutela di fronte a tali forme barbariche di violenza, giungono però dopo alcuni provvedimenti di tutt’altro tenore: nel dicembre 2009, il Tribunale di Trieste (sentenza n. 540 del 11.12.2009) aveva negato ad una donna camerunense il riconoscimento dello status di rifugiato perché dal racconto non emergeva un vero e proprio rischio di persecuzione e non appariva ravvisabile una violazione grave dei diritti umani fondamentali della richiedente tali da concederle lo staus di rifugiato ma solo a giustificare il riconoscimento della protezione umanitaria in quanto integranti una lesione o una minaccia di lesione, di beni fondamentali quali la libertà di matrimonio e l’integrità fisica e sessuale.

Nel 2010 il Tribunale di Torino (sentenza n. 327 del 6.8.2010) ha ritenuto che, siccome il rischio di stigmatizzazione per via della pratica di mutilazione subita proveniva dal padre, non vi fosse  il requisito della provenienza degli atti persecutori dai soggetti indicati dall’art. 5 D.lgs. 251/07 ovvero Stato, partiti o organizzazioni che controllano lo Stato o gran parte del suo territorio ovvero ancora soggetti non statuali se i responsabili dello Stato non possano o non vogliano fornire protezioni; inoltre, siccome la richiedente era già stata sottoposta in patria ad una forma di mutilazione genitale, non vi sarebbero state ragioni per ritenere una reiterazione di un simile trattamento e ciò di conseguenza escludeva la possibilità di riconoscerle anche la forma più attenuata di protezione, quella umanitaria.

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