Actio iudicati: prescrizione decennale e interruzione

di Dott.ssa SOFIA ERMINI

La questione dell’interruzione del termine decennale di prescrizione dell’actio iudicati è da tempo molto dibattuta. Di recente è intervenuta  l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 24/2020 del 04 dicembre 2020.

L’Adunanza Plenaria statuisce che: “Il termine di prescrizione decennale dell’actio iudicati previsto dall’art. 114, comma 1, c.p.a. si riferisce alla proponibilità dell’azione di esecuzione del giudicato e non agli effetti che il giudicato produce sulle posizioni giuridiche sottese (a differenza di quanto ha previsto l’art. 2953 del codice civile), di conseguenza può essere interrotto anche con idonei atti stragiudiziali, senza che entro detto termine, sia stato notificato il giudizio di ottemperanza.

La fattispecie, dalla quale scaturiva la questione in esame, riguardava specificatamente una decisione del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia con l’ordinanza n. 466 del 25 giugno 2020.

L’oggetto contestato in quest’ultima pronuncia traeva origine dalla mancata esecuzione del giudicato relativo alla sentenza n. 180/2001 del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia, con la quale si riconosceva agli eredi del professor Giuseppe Majorana di ottenere le differenze retributive dal 1/8/1980 al 31/7/1985 con rivalutazione ed interessi.

La sentenza 23 aprile 2001 numero 180, passata in giudicato, era stata notificata il 5 aprile 2011 alle amministrazioni resistenti, ai fini interruttivi della prescrizione del diritto alle somme ivi liquidate. Gli eredi avevano allora diffidato l’amministrazione a procedere nel pagamento delle somme, ma permanendo l’inerzia provvedevano ad intervenire esperendo l’actio iudicati.

Con l’ordinanza poc’anzi citata emergeva la contestazione agli eredi di una intempestiva interruzione della prescrizione, essendo avvenuta con atti stragiudiziali, l’amministrazione dichiarava infatti che come atto interruttivo era intervenuta una semplice notifica secca, e non un atto processuale. Difatti occorreva derimere il dubbio sul se considerare, il termine prescrizionale, previsto nella disciplina dell’actio iudicati, come sostanziale o processuale, in quanto solo nel primo caso un atto stragiudiziale è idoneo ad interrompere il decorso del termine.

Nell’ordinanza quindi si dava atto che, riguardo gli atti interruttivi della prescrizione decennale dell’actio iudicati, vi erano diversi orientamenti contrastanti, e per questo motivo il C.G.A.R.S. rimetteva la questione all’Adunanza Plenaria.

Tra i quesiti posti a quest’ultima, il Consiglio domandava se, ritenuta la prescrizione riferita all’azione processuale secondo il chiaro tenore dell’art. 114 co. 1 c.p.a., il termine di prescrizione potesse essere interrotto esclusivamente mediante l’esercizio dell’azione (come sembra desumersi dall’Adunanza Plenaria n. 5/1991 resa anteriormente all’entrata in vigore del c.p.a. del 2010), (anche davanti a giudice incompetente o privo di giurisdizione e fatti salvi gli effetti della translatio iudicii) o anche mediante atti stragiudiziali volti a conseguire il bene della vita riconosciuto dal giudicato.

L’Adunanza Plenaria con la sentenza n. 24 del 04.12.2020 pone fine alla questione e statuisce che con l’introduzione dell’art. 114 co. 1 c.p.a., il legislatore ha previsto un termine di prescrizione e non di decadenza; che anche un atto stragiudiziale può interrompere il decorrere della prescrizione, evidenziandone la natura sostanziale e non processuale, come invece affermato dall’orientamento riferibile all’A.P. 05/1991 (periodo antecedente il c.p.a. e con una lacuna normativa relativamente all’interruzione di prescrizione in caso di giudicato di interessi legittimi).

Consiglio di Stato
Adunanza plenaria
Sentenza 4 dicembre 2020, n. 24

Presidente: Patroni Griffi – Estensore: Maruotti

FATTO E DIRITTO

1. Con la sentenza n. 180 del 23 aprile 2001, il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana ha accolto l’appello degli odierni ricorrenti – eredi di un professore associato già in servizio presso l’Università degli studi di Catania – e, in riforma della sentenza n. 2223 del 1997 del TAR per la Sicilia, Sezione di Catania, ha dichiarato la sussistenza del loro diritto di ottenere alcune differenze retributive spettanti al dante causa, oltre rivalutazione ed interessi, per il lavoro prestato dal 1° agosto 1980 al 31 luglio 1985, a seguito della rideterminazione della decorrenza giuridica della nomina a professore associato.

Gli interessati:

– in data 5 aprile 2011, hanno notificato la sentenza all’Università ed al Ministero dell’università e della ricerca scientifica (entrambi soccombenti nel giudizio di cognizione);

– in data 9 luglio 2019, hanno diffidato le Amministrazioni al pagamento di euro 86.846,74.

2. Col ricorso d’ottemperanza n. 67 del 2020, proposto al Consiglio di giustizia amministrativa, i ricorrenti hanno chiesto che siano disposte le misure volte alla esecuzione del giudicato.

Nel corso del giudizio, si è costituita l’Università, la quale:

a) ha segnalato che, a suo tempo, il Ministero avrebbe eseguito il giudicato con la nota n. 1065 del 2001 (comunicata agli eredi in data 24 gennaio 2002), per la quale non spetterebbero ulteriori emolumenti, poiché “le retribuzioni di assistente ordinario e di incaricato interno ed esterno – percepite nel periodo in considerazione – erano superiori alla retribuzione di associato confermato a tempo definito”;

b) ha eccepito l’inammissibilità del ricorso, per mancata impugnazione della nota ministeriale n. 1065 del 2001;

c) ha altresì eccepito la prescrizione dell’azione d’esecuzione, per superamento del termine di dieci anni previsto dall’art. 114 del codice del processo amministrativo, dal momento che il giudicato si è formato circa 19 anni prima della notifica del ricorso d’ottemperanza e che non sarebbero qualificabili come atti interruttivi la notifica della sentenza, effettuata in data 5 aprile 2011, e la richiesta di accesso agli atti, inoltrata in data 5 aprile 2012.

Con la memoria difensiva di data 8 maggio 2020 e con note d’udienza, gli interessati hanno replicato alle difese dell’Università, segnalando che, in calce alla notifica della sentenza n. 180 del 2001 effettuata in data 5 aprile 2011, essi hanno apposto una specifica intimazione ad adempiere, con la frase “si notifichi al fine della esatta ottemperanza ed a tutti gli effetti, compreso quello interruttivo della prescrizione”.

3. All’esito dell’udienza di trattazione del ricorso, il Consiglio di giustizia amministrativa ha rimesso all’esame dell’Adunanza plenaria i seguenti quesiti:

– “a) se il termine di prescrizione decennale dell’actio iudicati previsto dall’art. 114, comma 1, c.p.a. riguardi il diritto di azione o il diritto sostanziale riconosciuto dal giudicato”;

– “b) se, ritenuta la prescrizione riferita all’azione processuale, secondo il chiaro tenore letterale dell’art. 114, comma 1, c.p.a., il termine di prescrizione possa essere interrotto esclusivamente mediante l’esercizio dell’azione (come sembra desumersi dall’Adunanza plenaria n. 5/1991 resa anteriormente all’entrata in vigore del c.p.a. del 2010) (anche davanti a giudice incompetente o privo di giurisdizione e fatti salvi gli effetti della translatio iudicii) o anche mediante atti stragiudiziali volti a conseguire il bene della vita riconosciuto dal giudicato”;

– “c) se, pertanto, al di là del nomen iuris di prescrizione utilizzato dall’art. 114, comma 1, c.p.a., il termine di esercizio dell’actio iudicati operi, nella sostanza, come un termine di decadenza, al pari di tutti gli altri termini previsti dal c.p.a. per l’esercizio di azioni davanti al giudice amministrativo, e si presti, pertanto, ad una esegesi sistematica e armonica con l’impianto del c.p.a.”;

– “d) se, in subordine, ove si ritenesse che l’art. 114, comma 1, c.p.a. vada interpretato nel senso di consentire atti stragiudiziali di interruzione dell’actio iudicati, non si profili un dubbio di legittimità costituzionale della previsione quanto meno in relazione agli artt. 111 e 97 Cost., per violazione dei principi di ragionevole durata dei processi e di buon andamento dell’Amministrazione”.

3.1. L’ordinanza di rimessione:

– ha richiamato gli orientamenti sulla questione sul se si possano ammettere atti stragiudiziali di interruzione dell’actio iudicati (per la soluzione affermativa, C.d.S., Sez. III, 28 febbraio 2014, n. 945; Sez. III, 22 dicembre 2014, n. 6296; Sez. VI, 30 dicembre 2014, n. 6432; Sez. III, 23 novembre 2017, n. 5448; C.G.A., 11 dicembre 2017, n. 544; per quella negativa, C.d.S., Sez. V, 16 marzo 1999, n. 274; Ad. plen., 29 agosto 1991, n. 5, rese prima dell’entrata in vigore del c.p.a.: sul rilievo del termine decennale, cfr. anche Sez. VI, 3 febbraio 1992, n. 59; Sez. VI, 2 marzo 1983, n. 108; Sez. V, 31 maggio 1966, n. 856);

– ha rilevato che la soluzione della questione dipende dalla verifica se il termine decennale, qualificato come di prescrizione dall’art. 114 c.p.a., sia un termine processuale (“di decadenza”, suscettibile di interruzione solo con l’esercizio dell’azione di ottemperanza) o un termine sostanziale (suscettibile di interruzione anche mediante atti stragiudiziali di esercizio del diritto riconosciuto dal giudicato);

– ha evidenziato come la tesi che ammette l’interruzione del termine di prescrizione, di cui si chiede una verifica sulla sua attuale condivisibilità, si sia consolidata dopo l’entrata in vigore del c.p.a. (come già rilevato dalla sentenza della Sez. VI n. 6432 del 2014);

– ha segnalato come si sia riconosciuta rilevanza interruttiva alla proposizione del ricorso d’ottemperanza dinanzi ad un giudice incompetente (Ad. plen., 26 agosto 1991, n. 5) e alle diffide o raccomandate (Sez. III, 21 novembre 2013, n. 94);

– ha offerto “la propria posizione sulla questione di diritto”, prospettando la non condivisibilità della tesi che ammette atti interruttivi stragiudiziali dell’actio iudicati, per le ragioni così sintetizzabili:

a) il processo amministrativo si caratterizza per il principio secondo cui “il termine per l’azione è interrotto solo ed esclusivamente dall’esercizio dell’azione e non da atti stragiudiziali”;

b) l’art. 114, comma 1, del c.p.a. si riferisce alla “azione” e non al diritto sottostante;

c) l’art. 2953 del codice civile – per il quale “i diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni” – “si riferisce ai diritti sostanziali e non all’azione processuale, e non pare applicabile nel processo amministrativo, dato che esiste la norma specifica e speciale dell’art. 114, comma 1, c.p.a.”;

d) “poco rileva che sia previsto per l’actio iudicati un termine di prescrizione e non di decadenza; infatti, gli atti interruttivi della prescrizione dei diritti devono concretarsi in atti di esercizio dei diritti medesimi che siano pertinenti e idonei ad esercitare i diritti stessi; e quando si tratta del diritto di azione processuale, l’unico atto di esercizio del diritto pertinente e appropriato è l’esercizio dell’azione stessa”;

e) la sentenza dell’Adunanza plenaria n. 5 del 1991 ha dato “per presupposto che solo l’esercizio dell’actio iudicati può interrompere il relativo termine”;

f) “i termini processuali sono ordinariamente perentori e, come tali, sottratti alla disponibilità delle parti”;

g) per la giurisprudenza civile, non si possono ammettere atti interruttivi “diversi dalla proposizione dell’azione giudiziale” (Sez. un., 9 dicembre 2015, n. 24822; Sez. un., 2 aprile 2017, n. 10016);

h) seguendo “la concezione estensiva degli atti interruttivi”, l’azione sarebbe proponibile “senza limiti”, potendosi ipotizzare “atti interruttivi stragiudiziali fatti nell’imminenza dello scadere dei dieci anni, reiterati ogni dieci anni”, col conseguente dubbio che l’art. 114, comma 1, del c.p.a. si ponga in contrasto con gli artt. 111 e 97 Cost., sotto i profili della ragionevole durata dei processi e del buon andamento della pubblica amministrazione.

3.2. Con una memoria di data 11 settembre 2020, i ricorrenti hanno argomentato sulle questioni sollevate con l’ordinanza di rimessione ed hanno insistito nelle già formulate conclusioni.

In data 2 e 30 ottobre 2020, l’Università degli Studi di Catania ha depositato scritti difensivi, con cui ha anch’essa argomentato sulle questioni controverse ed ha chiesto che il ricorso sia respinto.

I ricorrenti hanno altresì depositato una memoria di replica e note di udienza, in data 27 ottobre e 17 novembre 2020.

4. Ritiene l’Adunanza plenaria che le questioni sollevate dall’ordinanza di rimessione vadano esaminate tenendo conto della evoluzione della normativa nazionale in tema di giudizio di ottemperanza e di prescrizione, nonché del principio di pari dignità della tutela dei diritti e degli interessi legittimi.

Non rilevano invece le sentenze delle Sezioni unite sopra richiamate al § 3.2. (riguardanti specifiche questioni sulla decorrenza degli effetti di una notifica, nelle sfere del notificante e del notificatario, e sulla impugnabilità di un licenziamento).

5. Il giudizio d’ottemperanza è stato per la prima volta disciplinato dall’art. 4, n. 4, della l. n. 5992 del 31 marzo 1889, istitutiva della Quarta Sezione del Consiglio di Stato.

Tale articolo – poi trasfuso nei testi unici sul Consiglio di Stato approvati con i rr.dd. n. 6166 del 1889, n. 638 del 1907 e n. 1054 del 1924 – ha testualmente ammesso la proponibilità del rimedio solo per eseguire il “giudicato dei tribunali che abbia riconosciuto la lesione di un diritto civile o politico”.

L’art. 90, secondo comma, del r.d. 17 agosto 1907, n. 642 (di approvazione del “regolamento di procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato”), ha disposto che i ricorsi d’ottemperanza, di cui al t.u. n. 638 del 1907 e quindi quelli di cui all’art. 27, n. 4, del t.u. n. 1054 del 1924, “possono essere proposti finché duri l’azione di giudicato”.

L’art. 90 ha così richiamato le allora vigenti disposizioni del codice civile del Regno d’Italia del 1865, il quale:

– all’art. 2135, disponeva che, salvi i più brevi termini previsti dagli artt. 2137-2148, “tutte le azioni tanto reali quanto personali si prescrivono col decorso di trent’anni”, e dunque anche l’actio iudicati, in assenza di una specifica disciplina di tale azione;

– all’art. 2123, ammetteva che “la prescrizione può essere interrotta … civilmente”, cioè, tra gli altri atti, con una domanda giudiziale o un atto di costituzione in mora.

Il ricorso d’ottemperanza, che nell’originaria intenzione del legislatore riguardava l’esecuzione del giudicato civile a tutela dei diritti, poteva dunque essere proposto entro il termine di trent’anni, di per sé interrompibile.

5.1. Questo Consiglio ha poi ammesso il ricorso d’ottemperanza anche nel caso di mancata esecuzione di proprie decisioni, dapprima nel caso di lesione di un diritto soggettivo di un dipendente, nel sistema della giurisdizione esclusiva prevista dalla l. n. 2840 del 1923 (Sez. IV, 2 marzo 1928, n. 181), e poi nel caso di mancata emanazione di un atto ulteriore dopo l’annullamento di un diniego (Sez. V, 12 maggio 1937, n. 616) o di esecuzione della sentenza d’annullamento di un titolo abilitativo rilasciato ad un terzo (Ad. plen., 3 luglio 1952, n. 13, sulla mancata chiusura di una farmacia, dopo l’annullamento del suo atto istitutivo).

5.2. Con l’entrata in vigore del codice civile del 1942, vi è stata una profonda modifica della disciplina della prescrizione.

Oltre alla disciplina sul termine ordinario in dieci anni (art. 2946) e sui termini più brevi, anche presuntivi (artt. 2948-2952; 2954-2957), il codice del 1942:

– all’art. 2953, ha specificamente disciplinato l’actio iudicati, disponendo che “i diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni”;

– all’art. 2943, quarto comma, ha previsto che la prescrizione è interrotta “da ogni altro atto che valga a costituire in mora il debitore”.

Sotto il profilo lessicale, va rimarcato che – mentre l’art. 90 del r.d. n. 642 del 1907 e l’art. 2135 del codice civile del 1865 si sono riferiti all'”azione” e alle “azioni” e dunque a nozioni “processuali” – l’art. 2953 del codice civile del 1942 si è invece riferito ai “diritti” e dunque ad una nozione “sostanziale”, facendo sorgere la perdurante discussione se l’istituto della prescrizione riguardi il diritto o l’azione.

5.3. Al di là degli aspetti lessicali delle sopra richiamate disposizioni, è invece indubbio che – con l’entrata in vigore del codice civile del 1942 – il richiamo all’actio iudicati, contenuto nell’art. 90 del r.d. n. 642 del 1907, abbia comportato l’applicazione del termine di dieci anni, per la proposizione del ricorso d’ottemperanza per l’esecuzione di un giudicato civile (su specifiche questioni riguardanti tale esecuzione, vanno richiamate le sentenze dell’Adunanza plenaria n. 1 del 1973 e n. 4 del 1998).

5.4. Nella giurisprudenza di questo Consiglio – prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo – non si è mai dubitato della applicabilità degli artt. 2953 e 2943, quarto comma, per la proponibilità di ricorsi d’ottemperanza nel caso di mancata esecuzione dei giudicati civili o di mancata esecuzione dei giudicati amministrativi riguardanti posizioni di diritti.

Infatti, la giurisprudenza dell’Adunanza plenaria ha costantemente rilevato che la tutela dei diritti soggettivi deve essere effettiva e che essa – quando sia proposta una azione di cognizione, cautelare o d’esecuzione in una materia devoluta in sede di giurisdizione amministrativa esclusiva – non possa essere inferiore a quella prospettabile innanzi al giudice civile (cfr. Ad. plen., 18 dicembre 1940, n. 1; Ad. plen., 26 ottobre 1979, n. 25; Ad. plen., 30 marzo 2000, ord. n. 1; cfr. anche Corte cost., 28 giugno 1985, n. 190).

5.5. Invece, quanto ai giudicati amministrativi di annullamento di atti lesivi di interessi legittimi (per i casi di mancata emanazione di atti ulteriori, dopo l’annullamento di un diniego o di un atto favorevole ad un terzo), nella giurisprudenza di questo Consiglio si è posta effettivamente la questione se l’actio iudicatifosse proponibile improrogabilmente entro il termine di dieci anni (decorrente dalla formazione del giudicato d’annullamento) o anche dopo la scadenza di tale termine, qualora vi fossero state iniziative “stragiudiziali” degli interessati volte ad ottenere l’esecuzione del giudicato.

Poiché gli interessi legittimi (come i poteri autoritativi) per definizione non sono soggetti a “prescrizione”, era sostenibile la tesi secondo cui in ogni tempo il vincitore della lite avrebbe potuto agire col giudizio d’ottemperanza, per far emanare le misure volte alla esecuzione del giudicato.

Tuttavia, in considerazione dell’esigenza per la quale i rapporti di diritto pubblico non possono restare a lungo in una situazione di incertezza, anche dopo la l. n. 1034 del 1971 (che per la prima volta ha ammesso espressamente il giudizio d’ottemperanza delle sentenze del giudice amministrativo) la giurisprudenza ha prevalentemente seguito la tesi per la quale il termine richiamato [dal]l’art. 90 del regio decreto del 1907 – divenuto di dieci anni dopo l’entrata in vigore del codice civile del 1942 – si dovesse intendere “non interrompibile” quando si agiva in ottemperanza per la tutela di un interesse legittimo, con il corollario della necessaria proposizione del ricorso entro il termine decennale, pena la conseguente prescrizione.

A tale principio, si è implicitamente richiamata la sentenza dell’Adunanza plenaria 26 agosto 1991, n. 5 (resa su una vicenda di cui più volte l’Adunanza si è occupata con le sentenze n. 3 del 1976, n. 16 del 1979, n. 5 del 1991 e n. 7 del 1992), la quale ha ritenuto però interrompibile il termine nel caso di adizione di un giudice incompetente, in implicita adesione al principio previsto per tale adizione dall’art. 2125, primo comma, del codice civile del 1865.

6. In questo quadro normativo e giurisprudenziale, nel codice del processo amministrativo è stato inserito l’art. 114, comma 1, che in tema di giudizio d’ottemperanza dispone che “l’azione si prescrive con il decorso di dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza”.

6.1. Sotto il profilo lessicale, e completando quanto è stato già rilevato sopra al § 5.2., va sottolineato come l’art. 114, comma 1, abbia sancito la “regola della prescrizione decennale” riferendosi – come l’art. 90 del r.d. n. 642 del 1907, ma in un ben diverso contesto normativo – alla proponibilità della “azione” di esecuzione del giudicato e non al rilievo del decorso del tempo sulle posizioni giuridiche oggetto del giudicato, a differenza di quanto ha previsto l’art. 2953 del codice civile.

Ad avviso dell’Adunanza plenaria, il legislatore si è consapevolmente riferito alla prescrizione della “azione”, senza fare riferimento alle posizioni giuridiche oggetto del giudicato.

6.2. Per quanto riguarda l’actio iudicati riguardante il giudicato (del giudice civile o del giudice amministrativo) avente per oggetto diritti, non vi era alcuna lacuna da colmare, proprio perché già gli artt. 2953 e 2943, quarto comma, del codice civile del 1942 hanno sancito le regole della prescrizione decennale e della sua interrompibilità.

6.3. Per quanto riguarda l’actio iudicati riguardante il giudicato avente per oggetto interessi legittimi, invece, il legislatore – nel tenere conto del precedente dibattito – ha ritenuto di non trasporre in legge il principio che la sentenza dell’Adunanza plenaria n. 5 del 1991 e la giurisprudenza sopra richiamata al § 3.2. avevano enunciato, come si è visto, in assenza di una specifica disposizione di legge.

Infatti, l’art. 114, comma 1, ha introdotto la diversa regola per la quale in ogni caso è “interrompibile” il termine di prescrizione decennale, quando si agisce con l’actio iudicati: non rileva sotto tale profilo la posizione soggettiva di cui si chieda tutela al giudice dell’ottemperanza.

Da tale comma, si desume chiaramente la determinazione del legislatore di qualificare come termine di prescrizione e non di decadenza quello entro il quale è proponibile il ricorso d’ottemperanza: non si può ritenere che il legislatore abbia utilizzato termini aventi un significato diverso da quello attribuibile in base alle nozioni generali.

Con riferimento ai diritti, tale determinazione risultava del resto costituzionalmente obbligata, poiché – per il principio di uguaglianza e per i principi fondanti la giustizia amministrativa (artt. 3, 103 e 113 Cost.) – di certo non si sarebbe potuto introdurre per essi un termine decennale di “decadenza”, tale da rendere del tutto incoerente la disciplina processuale sull’actio iudicati con quella sostanziale prevista dall’art. 2953 del codice civile (che consente di interrompere la prescrizione anche quando si tratti di un diritto che abbia dato luogo ad un giudicato favorevole).

Una specifica ed autonoma portata applicativa dell’art. 114, comma 1, ha allora riguardato proprio l’actio iudicati riguardante i giudicati aventi per oggetto posizioni di interesse legittimo, nel senso che il legislatore ha espressamente ammesso, in ogni caso, che il termine decennale, proprio perché è di prescrizione e non di decadenza, possa essere interrotto anche con idonei atti stragiudiziali, senza la necessità che entro il termine decennale sia notificato il ricorso d’ottemperanza.

6.4. La scelta del legislatore è stata dunque quella di disporre regole unitarie per l’actio iudicati, quanto al tempo della proposizione del ricorso d’ottemperanza, con riferimento sia ai diritti che agli interessi: ubi lex non distinguit, nec nos distinguere debemus.

Ad avviso della Adunanza plenaria, tale scelta risulta pienamente coerente con il principio di effettività della tutela e con la giurisprudenza costituzionale, poiché:

a) l’art. 1 del codice del processo amministrativo dispone che “la giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”, senza distinguere i diritti dagli interessi, aventi pari dignità ai sensi degli artt. 24 e 103 della Costituzione, sicché ben si regge su tale principio la regola per la quale in ogni caso chi abbia ottenuto un giudicato favorevole possa sollecitare l’Amministrazione soccombente anche in sede stragiudiziale, affinché ci sia l’esecuzione, con la conseguente interruzione del termine di proposizione dell’actio iudicati;

b) più volte la Corte costituzionale, anche con le sentenze n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006, ha evidenziato lo “stretto intreccio” che talvolta vi è tra gli interessi e i diritti devoluti dalla legge alla giurisdizione amministrativa esclusiva, sicché si giustifica un regime giuridico unitario (e dunque semplificato) dell’actio iudicati, che ai fini della proponibilità del rimedio – in presenza di atti stragiudiziali volti all’esecuzione del giudicato – renda irrilevante l’esame della natura della posizione fatta valere nel giudizio di cognizione.

La regola generale della interrompibilità del termine decennale di prescrizione dell’actio iudicati neppure risulta in contrasto con gli artt. 97 e 111 della Costituzione, diversamente da quanto è stato paventato dall’ordinanza di rimessione.

Si deve infatti considerare che l’Amministrazione risultata soccombente nel giudizio di cognizione ha il dovere di dare esecuzione d’ufficio al giudicato: la mancata esecuzione del giudicato si pone in sé in contrasto con il principio del buon andamento dell’azione amministrativa.

Il rimedio del ricorso d’ottemperanza va visto come extrema ratio per ottenere in sede di giurisdizione di merito l’esecuzione del giudicato, qualora in sede amministrativa non vi sia stata una definizione della questione conforme al giudicato stesso, a seguito dei contatti eventualmente intercorsi tra le parti.

Tali contatti vanno considerati di per sé consentiti dal sistema e, in particolare, dall’art. 11 della l. n. 241 del 1990, il quale va interpretato nel senso che ben può essere concluso un accordo di natura transattiva, volto a definire una volta per tutte la controversia (Sez. IV, 11 agosto 2020, n. 4990).

È pertanto del tutto fisiologico che nel corso del tempo il vincitore del giudizio di cognizione solleciti l’Amministrazione ad eseguire il giudicato, prospettando se del caso soluzioni che possano essere concordate, prima di proporre il giudizio d’ottemperanza (anche in un’ottica deflattiva del contenzioso).

In questo contesto, gli atti di impulso univocamente rivolti ad ottenere l’esecuzione del giudicato sono stati evidentemente ritenuti idonei dal legislatore ad interrompere il termine di prescrizione dell’actio iudicati, non potendo essere “premiata” l’Amministrazione – con una regola della non interrompibilità della prescrizione – quando, malgrado tali atti, non vi sia stata né la “unilaterale” esecuzione del giudicato, né una soluzione consensuale.

La regola generale della interrompibilità del termine decennale di prescrizione dell’actio iudicati neppure risulta in contrasto col principio della ragionevole durata del processo.

Tale principio riguarda di per sé il periodo di tempo entro il quale deve esservi da parte del giudice la risposta di giustizia e non può essere inteso nel senso che vi siano preclusioni per il legislatore nel fissare una regola generale, per la quale – una volta ottenuto un giudicato favorevole – chi ha titolo ad ottenere l’adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto preferisca anche periodicamente sollecitare l’Amministrazione soccombente a dare esecuzione al giudicato, senza ricorrere al giudice dell’ottemperanza e confidando che l’Amministrazione stessa, nel rispetto dei propri doveri istituzionali, dia finalmente esecuzione del giudicato.

7. Sulla base di tale quadro normativo desumibile dall’art. 114, comma 1, del c.p.a., ed in risposta ai quesiti sollevati dall’ordinanza di rimessione, ritiene dunque l’Adunanza plenaria di enunciare il seguente principio di diritto:

“Il termine decennale previsto dall’art. 114, comma 1, del c.p.a. in ogni caso può essere interrotto anche con un atto stragiudiziale volto a conseguire quanto spetta in base al giudicato”.

8. Ai sensi dell’art. 99 del c.p.a., la causa va rimessa al Consiglio di giustizia amministrativa della Regione siciliana, la quale ne valuterà le concrete ricadute al fine di deciderla con la sentenza definitiva, anche in ordine alle spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza plenaria) – non definitivamente pronunciando – enuncia il principio di diritto indicato in motivazione e restituisce il giudizio al Consiglio di giustizia per la Regione siciliana, cui va rimessa anche la statuizione sulle spese.

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