di avv. Tommaso Rossi
Una questione sollevata dai Tribunali di Padova e Bolzano
La questione di legittimità costituzionale nasce dalle ordinanze di rimessione dei Tribunali di Padova e Bolzano, che si sono trovati di fronte a imputati giovanissimi, privi di precedenti penali e accusati di detenzione ai fini di spaccio di quantitativi minimi di sostanza stupefacente. Gli imputati avevano chiesto l’applicazione della messa alla prova, ma tale possibilità era preclusa dal recente innalzamento del massimo edittale della pena – da 4 a 5 anni di reclusione – disposto dal cosiddetto “decreto Caivano” (D.L. n. 123/2023, conv. L. n. 159/2023).
La ratio della sentenza: uguaglianza e rieducazione
La Consulta ha ravvisato una violazione del principio di uguaglianza sostanziale (art. 3 Cost.), dal momento che – a fronte dell’esclusione per il piccolo spaccio – la messa alla prova risultava comunque applicabile per reati più gravi, come l’istigazione all’uso illecito di stupefacenti (art. 82 T.U. Stupefacenti), punito con una pena edittale anche più severa ma incluso nel novero dei reati per cui è ammessa la citazione diretta a giudizio.
Secondo i giudici costituzionali, tale disparità crea un ribaltamento irragionevole della scala di gravità dei reati, rendendo inammissibile la messa alla prova proprio per quelle condotte meno gravi e spesso occasionali, alle quali meglio si attaglia l’obiettivo rieducativo e risocializzante dell’istituto.
La messa alla prova: uno strumento essenziale per la giustizia penale
La pronuncia ribadisce la centralità della messa alla prova nel sistema penale contemporaneo: un istituto non meramente premiale, ma portatore di una funzione rieducativa, riparativa e deflattiva. A differenza della sospensione condizionale della pena o delle misure alternative, essa interviene in una fase precoce del procedimento penale, permettendo all’imputato di intraprendere un percorso di recupero e responsabilizzazione ancor prima dell’accertamento giudiziale definitivo.
La Corte sottolinea che proprio nel caso del piccolo spaccio – spesso espressione di marginalità sociale e condotte non sistemiche – l’accesso alla messa alla prova può rappresentare una via più efficace rispetto alla pena detentiva per prevenire la recidiva e favorire l’inclusione sociale.
Una decisione che ristabilisce coerenza nel sistema penale
La sentenza n. 90/2025 ha, dunque, ristabilito l’accesso alla messa alla prova anche per lo spaccio di lieve entità, eliminando un’asimmetria normativa che si era creata non per scelta esplicita del legislatore, ma come effetto collaterale dell’inasprimento sanzionatorio operato con finalità diverse (rafforzare il potere cautelare nei confronti di determinate condotte).
La Corte ha scelto una soluzione equilibrata: non ha esteso l’applicazione dell’intero procedimento di citazione diretta a giudizio al reato in questione, ma ha limitato l’intervento al solo art. 168-bis c.p., inserendovi la possibilità di accesso alla messa alla prova anche per lo spaccio di lieve entità, in coerenza con la funzione e la ratio dell’istituto.
Conclusioni
La decisione rappresenta un segnale importante in direzione di una giustizia penale più coerente, proporzionata e umana, che valorizzi i percorsi individuali di responsabilizzazione e recupero, senza rinunciare al rigore nella repressione dei fenomeni criminali più gravi.
Per gli operatori del diritto – avvocati, magistrati, operatori dell’esecuzione penale esterna – si tratta di un ritorno a una lettura costituzionalmente orientata del sistema, in cui la differenziazione dei trattamenti trova giustificazione solo nel rispetto dei valori fondanti della Carta: eguaglianza, proporzionalità e funzione rieducativa della pena.