Il caso Assange tra asilo diplomatico ed estradizione

LA VICENDA DEL FONDATORE DI WIKILEAKS SECONDO IL DIRITTO INTERNAZIONALE

di Dott.ssa VERONICA BOTTICELLI

Ci sono nomi destinati a rimanere impressi a lungo nella coscienza sociale. Quello di Julian Assange, fondatore di WikiLeaks, è probabilmente il più famoso tra questi: trattasi di un personaggio piuttosto controverso che, complice l’alone di mistero di cui è ammantato, sfugge a qualsivoglia definizione, nonché ad un gran numero di giurisdizioni.

L’ultimo aggiornamento di quella che è stata definita come la più lunga e travagliata saga giudiziaria dell’ultimo decennio risale all’inizio dell’anno corrente. Il 4 gennaio 2021, infatti, il Regno Unito ha negato l’estradizione di Assange negli USA, dove l’uomo rischiava una condanna a 175 anni di reclusione relativamente alle accuse di spionaggio e pirateria informatica. In maniera abbastanza sorprendente, infatti, la giudice inglese Vanessa Baraitser ha stabilito che le garanzie fornite dalle autorità di Washington circa il grado di tutela dei detenuti non risultano essere compatibili con lo stato di salute psicofisico del fondatore di WikiLeaks, che rischierebbe di togliersi la vita dietro le sbarre.

Al fine di meglio comprendere significato e possibili sviluppi di tale statuizione, occorre ripercorrere brevemente le principali tappe che hanno scandito tale intricata vicenda giudiziaria e politica.

Quest’ultima rinviene i propri albori nel lontano 2010, anno in cui l’allora trentanovenne Assange, australiano di nascita, divenne noto ai più per aver diffuso, tramite la piattaforma WikiLeaks – uno spazio web che raccoglie e ripubblica anonimamente, grazie ad un potente sistema di cifratura, documenti di carattere organizzativo ed aziendale generalmente coperti da segreto – alcune informazioni di pertinenza statunitense. In particolare, si trattava dei cablo della diplomazia americana, degli scottanti ‘Guantanamo Files’ recanti evidenze circa trattamenti inumani e degradanti perpetrati nella prigione cubana, nonché di resoconti inerenti ai crimini di guerra commessi in Afghanistan dalle milizie a stelle e strisce. A rivelare tali informazioni è stata Chelsea Manning, ex analista dell’intelligence e ‘whistle-blower’ statunitense, che aveva deciso di sfruttare lo spazio web gestito da Assange per portare alla luce condotte abusive, torture e violenze abilmente messe a tacere dalle autorità americane. Arrestata pochi giorni dopo l’accaduto, Manning venne contestualmente condannata a 35 anni di detenzione, scanditi da plurimi tentativi di suicidio dovuti alle condizioni di isolamento cui era sottoposta.

Quanto ad Assange, durante l’agosto del 2010 si recò in Svezia (sede di WikiLeaks) con l’intenzione di richiedere la residenza nel Paese, dal momento che la normativa svedese riconosceva piena tutela alla libertà di stampa. In tale occasione, egli venne a contatto con due donne, che in seguito avrebbero riferito circa incontri che, iniziati come consensuali, si sarebbero poi trasformati in aggressioni e stupri. Di conseguenza, l’InterPol (Organizzazione Internazionale di Polizia) ritenne opportuno spiccare un c.d. ‘red notice’, ovverosia un mandato d’arresto internazionale valido in 188 Paesi. Di ritorno a Londra, l’attivista contestò fermamene tali accuse innanzi alla polizia britannica, replicando di aver intrattenuto soltanto rapporti consenzienti. Nondimeno, egli scontò nove giorni di detenzione, per poi vedersi concessi prima i domiciliari e poi la libertà vigilata. Dopo aver fatto ritorno nel Regno Unito, Assange ebbe il timore di poter essere estradato non soltanto in Svezia, ma soprattutto negli Stati Uniti, dove credeva di poter subire pesanti accusa sulla base del c.d. Espionage Act del 1917. Tale legge americana – la cui applicazione era stata già precedentemente tentata nei confronti di Daniel Ellsberg per aver rivelato documenti secretati sulla guerra in Vietnam – ha sempre costituito fonte di discussione, in quanto idonea ad equiparare il giornalismo ad un vero e proprio atto di spionaggio.

Durante il mese di febbraio del 2011, la procedura per l’estradizione in Svezia venne sottoposta al vaglio di un tribunale londinese, che si pronunciò favorevole in tal senso. Fu proprio in quel momento che il fondatore di WikiLeaks fece ingresso nell’Ambasciata della Repubblica di Ecuador a Londra, dove l’allora presidente Rafael Correa decise di concedere ad Assange il diritto d’asilo. Occorre, tuttavia, comprendere qual è la tipologia di asilo cui si allude nel caso di specie, al fine di non incorrere in equivoci concettuali.

Ai sensi e per gli effetti della normativa internazionale, il diritto d’asilo viene declinato secondo una duplice sfumatura di significato, che nulla ha a che vedere con lo status di rifugiato. Si parla, infatti, di asilo territoriale ed extraterritoriale, quest’ultimo altresì definito ‘diplomatico’.

Quanto alla prima accezione, si suole far riferimento al potere dello Stato di accordare protezione, sia essa di carattere permanente o temporaneo, entro i confini del proprio territorio, a quanti siano fuggiti dal proprio Paese d’origine perché in qualche modo perseguitati. L’asilo extraterritoriale o ‘diplomatico’, invece, si configura nelle ipotesi in cui uno Stato accoglie le proprie presso le proprie ambasciate o delegazioni, situate nel territorio di altri Stati, individui perseguitati o ricercati in tali territori. Le condizioni che devono ricorrere affinché un individuo ottenga l’asilo diplomatico sono le seguenti: anzitutto, il fatto rispetto al quale la persona subisce il c.d. fumus persecutionis dev’essere di natura politica; in secondo luogo, l’individuo che beneficia di asilo diplomatico deve astenersi dallo svolgere, durante la sua permanenza nell’ambasciata straniera, qualsiasi attività di carattere politico; infine, vi è l’obbligo di lasciare la sede diplomatica ospitante non appena le autorità locali o di residenza concedano un salvacondotto al fine di raggiunge la frontiera e

Con ogni evidenza, la vicenda in esame dev’essere ricondotta a tale ultima fattispecie, dal momento che Assange si è visto riconoscere accoglienza e protezione dall’Ecuador pur non trovandosi ‘fisicamente’ in quello Stato, bensì mediante l’ambasciata avente sede a Londra.

In ogni caso, a prescindere dalle categorizzazioni di cui sopra, il riconoscimento del diritto d’asilo si fonda su due fondamentali presupposti applicativi, che sono l’uno conseguenza dell’altro. In primo luogo, l’asilo non si configura quale diritto soggettivo, e dunque imprescindibile ed inalienabile, dell’individuo; per l’effetto, vi è piena libertà dello Stato che, nell’esercizio della propria sovranità, ha la facoltà e non l’obbligo di concedere tale beneficio. Non esiste una disciplina organica del diritto di asilo: invero, a differenza della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 a tutela dello status di rifugiato, il diritto d’asilo viene menzionato in alcuni atti dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, aventi carattere non vincolante. A titolo di esempio, si vedano gli artt. 3 e 14 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, nonché la Dichiarazione del 1967 in tema di diritto di asilo territoriale (da molti considerata un’occasione mancata, in quanto la relativa Conferenza venne sciolta già nel 1977 senza aver ottenuto alcun risultato, e dunque senza che si addivenisse ad uno strumento giuridico vincolante quale, appunto, è la Convenzione), rilevante nei limiti dell’affermazione del c.d. principio di non-refoulement, che si traduce in un obbligo di non trasferimento.

Quest’ultimo parrebbe essere rilevante nel caso di specie, in quanto prevede l’obbligo di non trasferimento, diretto o indiretto, di un rifugiato o di un richiedente asilo in un luogo o Paese nel quale la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate per motivi di razza, religione, cittadinanza, appartenenza ad un gruppo sociale ovvero per via delle proprie opinioni politiche.

Tuttavia, tale principio conosce una deroga laddove il rifugiato sia considerato un pericolo per la sicurezza del Paese in cui risiede, ovvero costituisca una minaccia per la collettività in seguito ad una condanna definitiva per un crimine particolarmente grave. Allo stesso modo, il diritto di concedere l’asilo può subire limitazioni in base ai trattati internazionali di cui lo Stato è parte, in particolar modo per ciò che concerne l’estradizione. Trattasi di un istituto mediante il quale uno Stato consegna (estradizione c.d. passiva) un individuo presente sul suo territorio ad un altro Stato che ne abbia fatto richiesta (estradizione c.d. attiva), al fine di dar esecuzione ad una pena detentiva o ad un processo.

Nella vicenda Assange, il complesso bilanciamento tra diritto d’asilo ed estradizione rappresenta il cuore della questione. Invero, dopo aver appreso la notizia della permanenza dell’attivista nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, le autorità britanniche manifestarono l’intenzione di arrestare il fondatore di WikiLeaks per dar seguito alle condanne penali sul medesimo pendenti, di fatto violando il principio di ‘extraterritorialità’ delle sedi diplomatiche. Tuttavia, la suddetta ambasciata deve considerarsi a tutti gli effetti pertinenza territoriale ecuadoriana: pertanto, rappresenta un luogo in cui le autorità di polizia britanniche non possono far accesso, e ciò a tutela dell’inviolabilità delle funzioni diplomatiche, cui si ricollegano i privilegi e le immunità sancite dalla Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 1961.

Nondimeno, quanto appena statuito non trova applicazione nel caso di specie dal momento che il Regno Unito, per il tramite di negoziati, concluse un accordo con il governo di Quito al fine di espellere Assange dalla sede diplomatica, sull’assunto (da alcuni considerato del tutto ‘pretestuoso’) che l’attivista avesse violato i termini del suo asilo, ma più probabilmente per via dell’acuirsi di tensioni dovute all’insediamento del nuovo presidente dell’Ecuador Lenin Moreno. Nel frattempo, dopo ben sette anni di indagini preliminari, gli inquirenti svedesi decisero di archiviare il caso, ritenendo di non dar seguito alle accuse di molestie e violenza sessuale che interessavano Assange ed affermando di poter riaprire il caso soltanto laddove quest’ultimo avesse fatto ritorno nel Paese entro 2020: cosa che, con ogni evidenza, non è avvenuta.

Ciononostante, l’attivista venne egualmente arrestato da Scotland Yard l’11 aprile del 2019, per aver violato gli obblighi connessi alla precedente cauzione. Contestualmente, Assange venne altresì incriminato negli Stati Uniti sulla base di ben 17 capi d’accusa formulati in ossequio all’Espionage Act sopra menzionato, per aver cospirato al fine di ottenere informazioni riservate e successivamente diffuse online, nonché per un ulteriore crimine punito ai sensi di una legge in tema di abusi e frodi informatiche. All’incirca un anno fa, nel febbraio 2020, prende avvio il processo per l’estradizione, di fatto bloccato dalla decisione della giudice Baraitser, peraltro già fatta oggetto di ricorso da parte delle autorità statunitensi. Quanto al fondatore di WikiLeaks, egli – piuttosto debilitato dal punto di vista sanitario, ma che si è visto nuovamente negare la libertà su cauzione – resta detenuto in un carcere di Londra in attesa di conoscere i prossimi sviluppi, con la spada di Damocle di una possibile estradizione negli USA che continua ad incombere sul suo futuro.

In questo senso, il diniego dell’estradizione negli Stati Uniti, sebbene certamente apprezzabile, costituisce soltanto una ‘vittoria a metà’, soprattutto se si guarda alle ragioni avanzate dalla corte inglese. Quest’ultima, pur avendo accusato duramente il sistema carcerario statunitense – definito come ‘follemente’ oppressivo ed in grado di minacciare l’incolumità e la sicurezza dei detenuti –, ha infatti precisato come, in verità, vi sarebbero validi motivi per perseguire Assange in relazione alle pubblicazioni effettuate mediante WikiLeaks. Circostanza, questa, costantemente negata dai maggiori presidi internazionali a tutela di diritti umani: primo tra tutti Amnesty International, che non ha mai cessato di denunciare la gravità di quello che verrà ricordato come vero e proprio processo politico alla libertà d’espressione.

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